Genova. La mostra Artemisia Gentileschi. Coraggio e Passione (Genova, Palazzo Ducale. Fino al 1° aprile 2024), a cura dello storico dell’arte Costantino D’Orazio, propone un percorso suddiviso in 11 sezioni, tra vicende familiari appassionanti, soluzioni artistiche rivoluzionarie, immagini drammatiche e trionfi femminili e offre l’opportunità di vedere raccolti oltre 50 capolavori sparsi in tutta Europa e negli Stati Uniti, opere che permettono di delineare un ritratto preciso della personalità complessa di una delle artiste più celebri al mondo. Foto d’pertura: Artemisia Gentileschi, Betsabea al bagno, 1635 o 1652
Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina, Sala di Berenice.
La mostra è promossa e organizzata da Arthemisia con Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Comune di Genova e Regione Liguria e rientra nell’ambito delle iniziative di Genova Capitale Italiana del Libro 2023.
Nella prima metà del Seicento, quando il mondo dell’arte è ancora dominato dagli uomini, Artemisia Gentileschi è stata la protagonista di una carriera eccezionale, che l’ha portata a lavorare per alcune delle corti più prestigiose d’Europa: Firenze, Napoli e Londra, solo per citarne alcune. È stata omaggiata da medaglie, ritratti dipinti da pittori illustri, poemi e incisioni. Eppure la sua fama oggi è dovuta soprattutto alla violenza carnale che ha subito nel 1611, ad opera di un pittore senza legge, Agostino Tassi. Sarà soltanto grazie al suo talento e alla sua eccezionale personalità che Artemisia riuscirà a scrollarsi di dosso i pregiudizi nei suoi confronti e dedicarsi a costruire un percorso artistico eccezionale.
Questa mostra vuole ricostruire le vicende che hanno funestato la vita di Artemisia, ma anche restituirle il merito di aver contribuito in maniera profonda al rinnovamento della pittura, sulle orme di Caravaggio.
Oltre a Roma, la Superba è la città che accomuna i principali artisti di questa esposizione: esattamente quattrocento anni fa Orazio Gentileschi si trova a Genova, dove lascia alcune tra le sue opere più significative, mentre Agostino ha lavorato qui nel 1605 per alcuni mesi, lasciando un segno indelebile nella costruzione di formidabili prospettive. Anche se non esistono documenti che possano confermare un soggiorno di Artemisia a Genova, l’eco del suo lavoro e alcune sue opere giungono nella Superba, così come i dipinti realizzati da suo padre in città saranno copiati successivamente dalla figlia.
Questa mostra, a cura di Costantino D’Orazio, intreccia vicende umane, rivoluzioni pittoriche, aneddoti e pensieri di una vivace ed intraprendente comunità artistica, che nel primo Seicento ha attraversato l’Italia e si è avventurata in Europa, diffondendo le novità caravaggesche, lo spirito della Controriforma e uno sguardo sulla realtà del tutto inedito. Ne hanno giovato molti pittori genovesi, come Domenico Fiasella – che conosce e lavora con Orazio – Gioacchino Assereto e Bernardo Strozzi, che in questa mostra, grazie al lavoro di Anna Orlando, aprono una interessante finestra sul panorama genovese dell’epoca, in perfetta corrispondenza con le novità che stanno esplodendo a Roma.
Prima sezione – Giovinezza e maturità di Artemisia
La carriera di Artemisia è aperta e chiusa dallo stesso soggetto: la scena biblica in cui Susanna, mentre fa il bagno, viene avvicinata da due uomini – un vecchio e un giovane – che la minacciano di diffamarla in pubblico se non accetta di giacere con loro. La storia ha un lieto fine, perché il profeta Daniele li smaschererà, ma i pittori sono sempre stati interessati a rappresentare il momento più drammatico, quello della proposta indecente e del rifiuto da parte della ragazza.
Il dipinto di Pommersfeld, datato 1610, è considerato il primo quadro di Artemisia, realizzato sotto la supervisione del padre Orazio mentre la versione di Brno (1649) si inserisce nell’ultima parte della carriera della pittrice: l’inizio e la fine sono segnati da una donna che subisce una violenza, deve difendersi da un’accusa infamante e si ritrova sola a combattere contro gli uomini. Una coincidenza straordinaria, una metafora dell’intera vita di Artemisia, moderna Susanna, che in questi due quadri dimostra come evolve il suo stile nel corso di quasi quarant’anni di attività, da Roma a Napoli. La sua tavolozza diventa sempre più cupa, l’organizzazione dello spazio sempre più consapevole, la rappresentazione dei corpi più sicura.
La luce, dalle tonalità tenui prese in prestito da suo padre Orazio, lascia il posto ai contrasti in chiaroscuro assorbiti da Caravaggio, il maestro di cui nel corso del tempo Artemisia diventerà l’erede femminile più autorevole.
Il XVI secolo rappresenta un momento di svolta nell’attività delle artiste. Se ancora nel secolo precedente le pittrici era soprattutto monache che dipingevano all’interno dei conventi, nel Cinquecento emergono donne che riescono a competere alla pari con i loro colleghi maschi. Artemisia, che si autoritrae con la corona di alloro in segno di trionfo, si trova perfettamente al centro di una storia che vede Properzia de’ Rossi accedere presso il cantiere pubblico più prestigioso di Bologna grazie alla forza della sua scultura, Sofonisba Anguissola ricevere la nomina a pittrice di corte presso il Re di Spagna e Lavinia Fontana ottenere l’incarico di dipingere il ritratto ufficiale del papa.
Le loro carriere, iniziate spesso grazie alla cura di padri artisti o mercanti, non hanno nulla da invidiare a quelle di tanti loro colleghi uomini, eppure inaugurano uno sguardo nuovo sulla realtà: più intimo, sofisticato e capace di investigare le emozioni. È il caso della delicatezza con cui Rosalba Carriera dipinge una ragazza che trattiene tra le braccia una colomba: il suo sguardo innocente, sorpreso e disarmante, fa pendant in questa sala con quello di Sofonisba (presente in mostra l’Autoritratto alla spinetta del Museo di Capodimonte), che grazie ai suoi autoritratti conquisterà il plauso di tutti i più grandi artisti del suo tempo. Come Angelika Kauffmann, che firmando l’atto di fondazione della Royal Academy of Arts nel 1768 diventa un’autorità assoluta in tutta Europa.
«Mi ritrovo una figliuola femina con tre altri maschi, e questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nella professione della pittura, in tre anni si è talmente appraticata, che posso ardir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere, che forse principali Mastri di questa professione non arrivano al suo sapere». Con queste parole d’elogio il 3 luglio 1612 Orazio presenta sua figlia Artemisia alla Granduchessa di Toscana Cristina di Lorena.
Non è difficile immaginare la ragazza, allora diciannovenne, seguire i suggerimenti del padre nelle case in cui la famiglia Gentileschi vive e lavora.
Ne cambiano almeno quattro: da via del Babuino (1610) passano a via Margutta (1611), per poi stabilirsi pochi mesi a via della Croce (1611) – dove avverrà la violenza carnale – e finire a Borgo Santo Spirito (1612). In ogni indirizzo abitano un appartamento modesto, in cui Orazio riesce sempre a ricavarsi una stanza per dipingere: lì impartisce ad Artemisia i primi rudimenti del mestiere, dalla miscela dei pigmenti alla stesura del colore sulla tela, dalla gestione della luce all’invenzione di morbidi panneggi. Vivendo segregata in casa, Artemisia diventa anche la modella prediletta di Orazio.
La vediamo bambina mentre suona la spinetta nelle vesti di Santa Cecilia, ormai ragazza avvolta da uno splendido mantello che ne fa una Sibilla: lei impara molto velocemente e coglie ogni sfumatura del mestiere del padre nelle sue Madonne. Il suo è un talento di famiglia. Padre e figlia sono qui raccontati attraverso confronti serrati tra tele con lo stesso soggetto, così da capire come la ragazza sia stata capace di sviluppare per talento e maestria un proprio linguaggio, che l’ha resa la pittrice più famosa del suo tempo, tanto da essere ammessa, prima donna in assoluto, all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze (1616).
Un rapporto ossessivo, controverso, simbiotico e ambiguo ma comunque fonte di ispirazione reciproca, come dimostrano i numerosi capolavori che Orazio Gentileschi ha dipinto, usando Artemisia come modella: tra gli altri, in mostra saranno esposti la Madonna con bambino dormiente in un paesaggio dei Musei di Strada Nuova – Palazzo Rosso di Genova, dove vediamo un’Artemisia neonata, la Santa Cecilia suona la spinetta e un angelo della Galleria Nazionale dell’Umbria, dove Orazio ricorda il volto di Artemisia a circa dieci anni, e la Sibilla del Museum of Fine Arts di Houston, dove Artemisia è una ragazza ormai matura.
La quarta sala offrirà ai visitatori un’esperienza inedita: la ricostruzione virtuale e immersiva di un raro gioiello d’arte, mai aperto al pubblico. Un luogo segreto di Roma, una dimora ancora oggi privata: il Casino delle Muse di Palazzo Pallavicini Rospigliosi, voluto sul Quirinale dal Cardinal Scipione Borghese nel 1611. Affrescato a quattro mani da Orazio Gentileschi e Agostino Tassi, vede la presenza speciale e insospettabile di Artemisia. Il primo pittore, specializzato nelle figure, il secondo nelle quadrature, realizzano un vero capolavoro d’arte barocca. La scena rappresentata è un vivace concerto, la cui orchestra è composta da sole donne: un fatto assai raro all’epoca, quando la musica, come l’arte, è una questione soprattutto maschile.
Ancor più strana, la presenza di una giovinetta che nulla ha a che vedere con le suonatrici. Viso rotondo, capelli raccolti a mala pena, posa civettuola: in quel volto Orazio avrebbe ritratto la sua amata figlia Artemisia. Qui, la sua presenza potrebbe assumere un significato preciso perché pochi mesi prima di questo affresco, Agostino si è macchiato della terribile violenza su Artemisia. Oggi può sembrarci strano, ma mentre sta lavorando fianco a fianco con lui al Casino, Orazio spera ancora che Tassi sposi la ragazza per riparare all’oltraggio. La sua immagine su questo soffitto potrebbe costituire un messaggio rivolto al giovane collega. Sappiamo bene come finirà la vicenda, ma il sospetto che su quel ponteggio si sia discusso della questione è forte e rende più affascinante questo capolavoro.
In questa sala si possono ammirare tre marine che si stagliano dietro splendide architetture, dipinte da Agostino Tassi. Sono la prova del suo eccezionale talento, che si esprime soprattutto nella composizione di paesaggi ed edifici costruiti con una straordinaria perfezione ed un guizzo tipico del genio barocco. Purtroppo la sua abilità tecnica convive con un carattere inquieto, un’attitudine alla rissa, un’arroganza che lo fa sempre sentire al di sopra della legge. Forte dei suoi potenti protettori, Tassi commette i più turpi reati, fino ad esercitare violenza su Artemisia Gentileschi, il 6 maggio 1611.
Artemisia e Agostino si conoscono grazie a Orazio, che affianca il giovane pittore alla figlia come maestro di prospettiva. L’incontro tra i due sfocerà terribilmente nello lo stupro della ragazza da parte del Tassi e condizionerà traumaticamente la vita della pittrice, provocando dramma e dolori da cui lei saprà riscattarsi soprattutto grazie alla sua arte.
Dopo lo stupro, Artemisia si troverà costretta ad accettare la prospettiva di un matrimonio riparatore,
come Betsabea, che difficilmente avrebbe potuto rifiutare le attenzioni di re David, come Cleopatra, che sceglie di suicidarsi quando vede spegnersi il suo sogno d’amore e potere, come Francesca, che dovrà scontare all’inferno l’essersi abbandonata alla passione. Sono donne fragili, prigioniere di relazioni che non hanno saputo governare, al pari di Artemisia, ingannata dalle false promesse di un uomo che dichiara di amarla, ma finirà per rovinarle la reputazione.
Le donne di Artemisia riscuoteranno un tale successo di pubblico, da meritare numerose repliche nei secoli successivi, come nel caso dell’arazzo degli Uffizi, realizzato dieci anni dopo la morte della pittrice e restaurato in occasione della mostra.
Il percorso prosegue attraverso una sala, dove il visitatore troverà esposti gli Atti originali del processo per stupro del 1612, eccezionalmente concessi dall’Archivio di Stato di Roma, e potrà ricostruire tutte le fasi della vicenda attraverso l’ascolto e la lettura dai fogli antichi delle parole di Artemisia, la difesa di Agostino e i racconti dei testimoni, in un ambiente dove si respirerà l’atmosfera di una città percorsadal pettegolezzo.
Quinta sezione – La vendetta di Artemisia
Chi sostiene che Artemisia dipinga più volte nella sua carriera la scena in cui Giuditta decapita Oloferne perché vuole vendicarsi in questo modo della violenza subita da Agostino Tassi, non rende sufficiente merito al suo talento e alla sua grandezza. Questo soggetto è uno dei più diffusi all’inizio del Seicento e Artemisia risponde con grande originalità alle richieste dei collezionisti. Giuditta, giovane ebrea di Betulia, città biblica della Palestina, compie il gesto eroico di uccidere il condottiero assiro Oloferne, che sta assediando il suo popolo. Con la scusa di proporre un’alleanza, viene accolta nell’accampamento nemico: durante il banchetto organizzato in onore dell’ospite, Oloferne si ubriaca e cade in un sonno profondo. A quel punto, con l’aiuto della fantesca Abra, Giuditta decapita l’uomo con la sua stessa spada, nascondendo la sua testa in un panno per mostrarla poi come trofeo al suo popolo, ormai liberato.
Artemisia riesce a rappresentare la scena insistendo sulla tensione che anima le due donne nel compiere questa impresa, che all’epoca conquista i collezionisti perché sovverte il tradizionale rapporto tra la forza maschile e la fragilità femminile. Nello sguardo di Artemisia, Giuditta è più decisa e fiera rispetto a come sia stata dipinta da altri grandi pittori del suo tempo, come suo padre Orazio, al quale si ispira in una celebre versione della vicenda.
Elisabetta Sirani a Bologna raccoglieràl’eredità di Artemisia, dedicando gran parte delle sue tele a donne coraggiose, come Timoclea, che spinge in un pozzo un comandante dell’esercito di Alessandro Magno, dopo essere stata violentata da lui. Storie terribili, a cui le pittrici del Seicento si ribellano con la forza della loro pittura.
Sono dunque qui esposti due dei capolavori della pittrice, Giuditta e Oloferne, della Fondazione Carit di Terni, e Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne, del Museo di Capodimonte, entrambi accostati e messi a confronto con la famosa Giuditta e Oloferne del padre Orazio Gentileschi, proveniente dai Musei Vaticani.
In Giuditta e Oloferne, opera di grande violenza, c’è chi legge il desiderio di vendetta della donna contro il suo stupratore. In Giuditta e la sua ancella si può invece trovare la sua delusione per il tradimento della governante Tuzia che assecondò la violenza e accusò in tribunale Artemisia di aver provocato le attenzioni di Agostino. Questi dipinti portano la testimonianza bruciante di un personale percorso di rivincita, sono il campo di battaglia in cui questa donna-artista combatte gli uomini che hanno provato ad annientarla.
La sentenza che conclude il processo, pur riconoscendo Agostino colpevole della violenza, non contribuiscono a migliorare una reputazione ormai compromessa, che Artemisia riuscirà a migliorare soltanto grazie al suo eccezionale talento e alla forza d’animo che guiderà la sua carriera, costretta a continuare fuori da Roma.
Sesta sezione – Il caravaggismo a Genova
La sezione – a cura di Anna Orlando – è dedicata alla scena genovese dei primi del Seicento. Sonopassati 400 anni da quando l’arrivo di Orazio Gentileschi a Genova provoca un cambiamento epocalenello stile degli artisti del territorio, che assorbono i contrasti di luce caravaggeschi e si dedicano al racconto di soggetti drammatici molto frequentati da Artemisia.
Il caravaggismo a Genova è stato oggetto di indagini approfondite in anni recenti e questa sala presenta una piccola ma significativa antologia di artisti e opere, che può offrire un sintetico panorama su questa straordinaria stagione pittorica.
Essa copre diversi decenni del Seicento, dal 1610 al 1650 circa, e interessa due generazioni di artisti. All’inizio del XVII secolo Genova è un grande porto e una indiscussa capitale finanziaria: i genovesi, aristocratici di censo e non di origine feudale, viaggiano, commerciano e prestano denaro. Abili mercanti e banchieri, entrano in contatto con le grandi potenze e con le corti d’Europa e si arricchiscono enormemente. La Superba diventa così anche una capitale artistica, dove giovani entusiasti collezionisti creano una condizione fertile per la nascita di una grande scuola pittorica e attraggono artisti da ogni dove. Non solo dalle Fiandre – si pensi a Rubens nel primo decennio e a Van Dyck nel secondo – ma anche da tutta Italia.
Orazio Gentileschi vi soggiorna dal 1621 al 1625 e, sebbene Artemisia non vi sia affatto documentata, le sue opere sono presenti nelle raccolte più importanti. La loro interpretazione del caravaggismo, in bilico tra realismo e classicismo, fornisce agli artisti locali uno stimolo notevole. Oltre allo stile, l’impatto sulla scuola locale del caravaggismo si ha anche nella scelta dei soggetti: la selezione di opere genovesi in questa sala lo dimostra con il San Giovannino di Strozzi e le varie versioni, più o meno cruente, dell’iconografia di Giuditta e Oloferne.
Nei primi del Seicento, molti dei processi che si celebrano nei tribunali romani vedono il coinvolgimento di artisti. I pittori usano qualsiasi mezzo, anche illecito, per diffamare i propri colleghi ed ostacolare le loro carriere, arrivando anche ad assalirli e sfregiarli. I quadri esposti in questa sala sono la testimonianza più fulgida dello straordinario talento di Orazio Gentileschi, che troviamo coinvolto in alcuni di questi processi, soprattutto a fianco di Caravaggio. Con lui per alcuni anni collabora, come è avvenuto mentre sta dipingendo il San Francesco e l’Angelo, da lui coglie alcune atmosfere, come si nota nell’atteggiamento malinconico del David al cospetto della testa del gigante Golia.
Ma forse è nella Salita al Calvario che Orazio rielabora l’eredità di Caravaggio, con il taglio ravvicinato che deriva dal metodo inaugurato dal Merisi. In questa comunità di maestri Antiveduto Gramatica svolge un ruolo fondamentale: è sua una delle botteghe dove i giovani Orazio e Caravaggio hanno mosso i primi passi nella professione di pittore, lasciando poi il loro segno indelebile in molte chiese e palazzi di Roma.
Ottava sezione – Dopo Roma, Artemisia a Firenze
Due giorni dopo l’emissione della sentenza di condanna contro Agostino Tassi, il 29 settembre 1612, Artemisia sposa Pierantonio Stiattesi, fratello di Giovanbattista, il notaio che ha sostenuto la famiglia Gentileschi durante il processo e presentato ai giudici le prove della colpevolezza di Agostino (alcune lettere in cui il pittore confessa la violenza). Con l’aiuto di Pierantonio, che ha il compito di gestire i rapporti con i clienti e firmare i contratti, Artemisia a Firenze lavorerà per il Granduca Cosimo II e per alcuni tra i più influenti personaggi della città, come Michelangelo Buonarroti il Giovane, pronipote del celebre maestro.
In città la pittrice apre una piccola bottega e firma i suoi dipinti ‘Artemisia Lomi’, utilizzando il cognome dei parenti di suo padre Orazio. Gli archivi fiorentini conservano molte sue lettere ai committenti, scritte soprattutto per chiedere anticipi di denaro, prestiti e aiuti per risolvere una situazione finanziaria spesso difficile. Nel tempo si viene a scoprire che questi problemi economici derivano dai debiti che suo marito Pierantonio contrae di continuo con numerosi fornitori di colori, di tele e materiali, a causa di una pessima gestione domestica. Malgrado tali questioni, Artemisia riesce ad affermarsi come una delle artiste più richieste della città, frequenta la corte dei Medici e nel 1616 è la prima donna ad essere ammessa alla prestigiosa Accademia delle Arti del Disegno, che si rivelerà fondamentale per consolidare la sua fama di artista e per risolvere alcune delle cause che la famiglia Stiattesi dovrà affrontare, a causa delle denunce dei creditori.
Dei quattro figli che Artemisia dà alla luce a Firenze – Giovan Battista (1613), Cristofano (1615), Prudenzia Palmira (1617) e Lisabella (1618) – soltanto Prudenzia sopravvive e parte con i genitori alla volta di Roma alla fine del 1620. Artemisia lascia dietro di sé la reputazione di una grande artista, ma anche il rammarico di non aver consegnato un dipinto ordinato dal Granduca e senza aver saldato alcuni debiti contratti dal marito.
Dopo il celebre processo, per oltre quarant’anni Artemisia dipinge soprattutto figure femminili protagoniste di vicende storici e biblici senza sosta: Giuditta, Cleopatra, Minerva, Maddalena, Dalila, Susanna sono le sue eroine, forti, a volte violente, indipendenti, sicure di sé, sensuali. In realtà, molte si ispirano a sè stessa. Le sue caratteristiche fisiche compaiono in molte dei suoi personaggi, come tanti storici hanno voluto riconoscere nel tempo.
Le cosiddette femmes fortes sono un soggetto molto amato in Europa all’inizio del Seicento. Forse perché sono ormai tanti i libri che affrontano la querelle des femmes, la disputa sul merito delle donne, o forse perché le artiste donne sono sempre più affermate, ma in ogni collezione è facile trovare dipinti che ritraggono un’eroina del passato. Le femmes fortes sono di solito donne di alto rango che compiono imprese memorabili, personaggi che contraddicono il pregiudizio nei confronti della debolezza femminile e dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo. Attingendo a figure che appartengono a epoche diverse, Artemisia – tra Firenze e Napoli – ritrae Cleopatra, la regina che compie il drammatico suicidio dopo la morte di Marco Antonio piuttosto che accettare di essere catturata dai Romani, e Maddalena, colta nel momento più intenso della sua conversione, pronta a strapparsi una collana e rifiutare gli strumenti della bellezza terrena. Oltre al coraggio e alla tenacia, c’è un altro elemento che accomuna queste donne dipinte da Artemisia: sono quasi tutte il suo autoritratto.
Ecco un’altra vicenda che mostra un uomo forte soggiogato dall’astuzia di una donna, tema molto frequente nell’opera di Artemisia Gentileschi. La vicenda di Sansone e Dalila è contenuta nel libro biblico dei Giudici, dove si narra della straordinaria forza fisica che Sansone dimostra in numerose imprese: l’uccisione di un leone, la liberazione dalle funi, ma soprattutto la strage di mille Filistei, acerrimi avversari degli Ebrei. La potenza dell’eroe è il frutto della profezia di un angelo, che impegna Sansone a rispettare per tutta la vita il nazireato, una speciale consacrazione a Dio, che lo obbliga a rinunce e speciali rituali. Solo Dalila, una schiava filistea acquistata da Sansone, riesce ad indebolire Sansone dopo averlo convinto a rivelarle che il segreto della sua forza è nei capelli, mai tagliati dalla nascita per via del nazireato.
Caduto vittima dei Filistei, l’uomo riuscirà a liberarsi solo quando i suoi capelli saranno ricresciuti. Artemisia dipinge più volte la scena più popolare di questa vicenda: quella in cui Dalila sta tagliando i capelli di Sansone. Mentre spesso l’eroe veste abiti all’antica, la donna indossa un abito scollato e un aspetto che insiste sulla sua bellezza e sulla sua capacità seduttiva, a cui l’uomo non ha saputo resistere. Gesti delicati ed espressione concentrata, la Dalila di Artemisia è ben diversa dalle versioni più concitate dipinte dai suoi colleghi contemporanei, come i liguri Domenico Fiasella e Gioacchino Assereto.
Datato 1630 e firmato su un cartiglio ‘Artemisia Gentilescha’, l’Annunciazione è la prima sua commissione napoletana superstite e, senza dubbio, resta uno dei suoi dipinti più potenti. A Napoli Artemisia trova il coraggio di recuperare il suo cognome e si fa strada grazie ad una più consapevole aderenza al linguaggio caravaggesco, di cui diventa una delle interpreti più efficaci.
Lo dimostra l’uso esteso del buio, solcato da squarci di luce che esaltano i protagonisti della scena.
Ancora una volta, Artemisia si dedica all’esaltazione della grandezza di una donna, che ha compiuto una scelta estrema nella sua vita. La sua posizione, sempre dalla parte delle donne, è diventata una garanzia per i suoi committenti: in questo periodo Artemisia è entrata in uno dei circuiti più elitari del collezionismo europeo. È impegnata nella realizzazione di quadri per l’imperatrice Eleonora Gonzaga, suocera dell’infanta di Spagna Maria Anna d’Austria, che si trova a Napoli di passaggio proprio in quell’anno. Sono lontani gli anni in cui doveva pietire anticipi e prestiti ai suoi clienti. Ora è una pittrice autorevole, che saprà affermare con originalità e tenacia il caravaggismo in tutta Europa.
Nel 1630 Artemisia si trasferisce a Napoli – città dalla straordinaria vivacità artistica – grazie ai rapporti che matura con Fernando Afán de Rivera, Duca di Alcalá e Viceré di Napoli, che nel 1629 ha acquistato tre dipinti della pittrice. Il suo stile, così vicino a quello di Caravaggio, affascina i collezionisti napoletani. Da Napoli, dove arriva con il fratello Francesco e la figlia Prudenzia, Artemisia intrattiene una fitta corrispondenza con Cassiano dal Pozzo, celebre erudito e suo appassionato committente, con il Duca di Modena Francesco I d’Este e con Ferdinando II de’ Medici, che ottengono suoi quadri, mentre Galileo Galilei e il nobile messinese don Antonio Ruffo diventano suoi consiglieri e mediatori.
Se si esclude la parentesi inglese, quando nel 1638-39 si reca a Londra per lavorare con suo padre Orazio alla corte di re Carlo I – forse partecipa alla decorazione del Casino delle Delizie della regina Henrietta – Artemisia non si sposterà mai da Napoli, dove produrrà una grande quantità di tele con l’aiuto del fratello Francesco, che ha sostituito il marito Pierantonio nella gestione della bottega. Perse le tracce di Pierantonio, Artemisia riuscirà a maritare sua figlia Prudenzia nel 1636, sostenuta dai numerosi clienti che acquistano i suoi dipinti.
Diventata la pittrice più celebre d’Europa, si circonda di allievi e collaboratori, dipingendo anche le uniche opere pubbliche della sua carriera per la Cattedrale di Pozzuoli. Muore intorno al 1653, in una data ancora non confermata: la sua tomba nella Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini è andata perduta negli anni ’50 del Novecento, quando l’edificio è stato abbattuto per fare spazio ad un moderno condominio.
Lunedì dalle ore 14 alle 19; martedì, mercoledì e giovedì dalle ore 9 alle ore 19; venerdì dalle ore 9 alle ore 20; sabato dalle ore 10 alle ore 20; domenica dalle ore 10 alle ore 19.
La biglietteria chiude sempre un’ora prima